Ieri si è spento all’età di 89 anni Fabio Cudicini, uno dei migliori portieri del calcio italiano e mondiale. Cudicini era nato a Trieste e iniziò a farsi conoscere con l’Udinese, con i bianconeri friulani esordì prima in Serie B e poi in Serie A, nel 1958 passò alla Roma e in seguito al Milan di mister Nereo Rocco al quale è stato dedicato lo stadio della sua città, con i rossoneri vinse praticamente ogni trofeo possibile. Fabio Cudicini fu soprannominato, per la sua agilità tra i pali, il “Ragno Nero”. La FIGC e il presidente Gabriele Gravina ha disposto che in sua memoria verrà osservato un minuto di raccoglimento prima delle gare di tutte le competizioni in programma nel prossimo fine settimana. E noi di pianeta-calcio in suo ricordo vi riproponiamo l’intervista fatta dal nostro direttore Andrea Nocini il gennaio del 2012.
NELLA TELA DEL “RAGNO NERO”
Impossibile non riconoscerlo tra i pali Fabio Cudicini, nato a Trieste – stessa città che ha dato i natali al “paron” Rocco – con quella calzamaglia nera e quel fisico magro e slanciato (191 cm di altezza) che pareva davvero un palo (della luce) tra i pali della porta. Gli sarebbe piaciuto fare il tennista, o meglio giocare fuori, ruolo mezz’ala, ma, alla fine la voglia di parare anche l’impossibile l’ha spinto a diventare uno dei numeri uno più forti d’Europa. A Milano, “paron” Nereo Rocco – che come apprenderemo nel corso dell’intervista – aveva giocato assieme al padre Guglielmo, detto “Mino”, si ricorda di “Ragno nero”, così almeno la difesa non sarà più insidiata dai pericolosi traversoni dalla fasce e dai conseguenti colpi di testa degli attaccanti avversari. Dopo anni quasi all’insegna dell’anonimato vissuti a Roma, con quei giallo-rossi con cui conquista una Coppa delle Fiere (1961) e una Coppa Italia (1964), e una stagione con le “rondinelle” del Brescia, “Ragno nero” passa al Milan, dove ormai già maturo (32 anni) vive la parabola più esaltante che gli darà notorietà e trofei. Con il “Diavolo” rosso-nero, infatti, in cinque stagioni vince tutto quello che c’era da vincere: dallo scudetto del 1967-68 alla Coppa dei Campioni (la seconda del Milan, nel 1969), dalla Coppa Intercontinentale (1969) alla Coppa Italia (1972). Non solo, ma, a “San Siro” Fabio Cudicini stabilisce l’ancora infranto record italiano di imbattibilità casalinga, pari a 1132 minuti.
Senta, Cudicini, qual è stata la parata più importante della sua carriera di calciatore? “Averla sempre in mente, qui, su due piedi, non ne ho una. Ce ne sono ovviamente diverse, però, tutte hanno una loro importanza, perché, come sappiamo, impediscono in maniera più o meno difficile, acrobatica, la possibilità di una rete”. La prima che le viene in mente, allora.. “Io parlerei di un insieme di parate, delle quali ce ne sono alcune veramente buone. Mi ricordo un derby di Coppa Italia contro l’Inter, in semifinale, l’anno non me lo ricordo. So che vincemmo 4 a 2 e poi ci qualificammo per la finale. Ricordo un paio di parate più importanti delle altre, che gettarono le fondamenta della vittoria, ci proiettarono in quella finale che vincemmo contro il Torino”. Che cosa ha pensato quando “paron” Rocco, triestino come lei, la chiamò ormai maturo, a 32 anni? Di ritornar giovane? “Di ritornar giovane, no; sicuramente, di impegnarmi al massimo per fare un grande campionato, in quanto mi era stata data una prova di una grande possibilità, perché il palcoscenico del Milan non era una cosa di tutti i giorni. Campionato dopo campionato, cercavo di dare soddisfazione e ragione a chi mi aveva scelto: al “paron” Rocco era obbligo quasi morale contraccambiare la fiducia, avendo io già una certa età allora. Quello era il mio pensiero, il mio cruccio principale: di non tradire l’uomo che mi dava la possibilità enorme di finire la carriera come poi del resto è avvenuto con diversi successi, riportati anche in campo internazionale”.
Si ricorda un rigore, due, tre di fila parati? “No, diciamo due, tre rigori di fila no. Diciamo che ci sono state delle parate su calcio di rigore, sicuramente importanti e soprattutto nelle partite a carattere di eliminazione dopo che la parità continuava a registrarsi nei supplementari. Nella lotteria dei rigori, me ne ricordo una in Francia, a Lance: avendone presi due, si poté passare il turno. In un’unica partita più di uno non mi è mai capitato di parare, salvo in quelle circostanze di spareggio, del dentro o fuori la competizione”. Qual è stata la “bestia nera” del “Ragno nero” Cudicini? “La mia “bestia nera” era John Charles, ex juventino. Le sue dimensioni, nel senso dell’altezza e del fisico corpulento, gli permettevano di sferrare dei colpi di testa micidiali. Negli incontri sia con l’Udinese che con la Roma, più che con il Milan, perché, data l’età, lui smise di giocare a Roma, dove ha fatto l’ultimo anno della sua carriera e dove ha sempre giocato con me, che io ero alle mie prime esperienze romane ed ebbi l’occasione di conoscerlo bene. Diciamo che era molto pericoloso, soprattutto per i colpi di testa, numero acrobatico grazie al quale mi fece diversi gol”.
Se la ricorda la caccia all’uomo vissuta nella gara di ritorno della finale di Coppa Intercontinentale giocata in casa degli argentini dell’Estudiantes? Non provò paura, lei, in porta e facile – vista l’altezza – bersaglio dell’animosità dei sudamericani, i quali fratturarono il setto nasale al vostro Nestor Combin? “Eh, sì, a Buenos Aires fu una partita davvero micidiale perché questi qui erano veramente degli animali come vennero poi chiamati successivamente. Ancora adesso non capisco le motivazioni perché gli avversari si comportarono in quella maniera; anche perché nella partita dell’andata, in cui vincemmo a Milano, al di là della vittoria che procurò certo fastidio, non ci furono particolari animosità o scontri scorretti. E, quindi, nessuno si aspettava, al di là di un legittimo desiderio di vittoria, una reazione così brutale, visto che era anche difficile poter rimediare al 3 a 0 subito all’andata. La loro cattiveria non giustificò il comportamento, come ho detto prima, animalesco addirittura, che misero in campo”. Lei così alto sarebbe stato un facile bersaglio soprattutto per i tifosi argentini sugli spalti: non era cioè piccolo da potersi nascondere dietro le sagome dei suoi compagni milanisti per sgusciar via alle ingiustificate provocazioni degli avversari… Non ha provato una doppia paura? “Doppia paura è dire troppo. Piuttosto, io parlerei di preoccupazione, quella sì, perché nelle mischie che si crearono in occasioni di calci d’angolo, palle inattive, non miravano al pallone, ma, spesso e volentieri, cercavano di farmi male per mettere in condizioni il Milan di avere una chance in più facendo fuori il portiere”.
Ha mai battuto un calcio di rigore? “Sì, ne battei uno nella partita di Coppa Italia, con la Fiorentina, quando giocavo nella Roma, allo stadio “Flaminio”. La partita era terminata in parità anche dopo i supplementari e furono necessari i calci di rigore. In quell’occasione mi capitò di tirarne uno”. L’ha segnato? “Sì, ad Albertosi”. Lei, Cudicini, è nato portiere, o aveva provato in altre discipline, immaginiamo il basket o il volley, data la sua statura? “Ho cominciato nella Ponziana, la seconda squadra di Trieste. Nel calcio ero nato come ala destra: nelle giovanili della Ponziana avevo cominciato come ala destra dei Giovanissimi. Poi, siccome le mie doti non erano eccezionali, nei ritagli di tempo dell’allenamento mi piaceva andare anche tra i pali. La passione e la successiva carriera mi diedero ragione. Avevo iniziato come ala. Invece, avevo iniziato con un altro sport da ragazzino: a nove-dieci anni, avevo iniziato a giocare a tennis, e a un certo punto mi assalì anche il dubbio se continuare con il tennis oppure decidere di giocare a calcio. Fu una decisione buona col senno di poi, ma, non è stata facile perché io sono sempre stato un innamorato del tennis”.
Cosa le disse “paron” Nereo Rocco quando lo fece prelevare dalla Roma a trent’anni suonati? “La battuta, molto frequente in Rocco anche nelle situazioni più serie, più delicate, per giustificare magari una sua decisione, in questo mio caso fu questa: “Io ho sempre paura in tutte le mie squadre dei colpi di testa, dei cross degli avversari. Siccome, te sì longo, penso che con te in porta l’area di rigore, per lo meno l’area piccola, sarò tranquillo, è una tua zona e su quella mi leverai diverse situazioni difficili, riuscirai ad evitare i colpi di testa nelle vicinanze della porta. Naturalmente, era una battuta perché poi ci sono state situazioni in cui mi fecero gol anche nell’arco dei cinque metri”. I suoi idoli da ragazzino? “Quand’ero ragazzo, avevo un idolo: Sentimenti IV, della Juventus”. Perché non ha mai debuttato in Nazionale? Perché aveva davanti Albertosi e Zoff? “In un primo tempo avevo davanti Ghezzi e Buffon. Successivamente, Zoff ed Albertosi. Tutti e quattro nei loro periodi durarono parecchi anni a difesa della porta azzurra. Per cui ebbi la possibilità di essere convocato in azzurro e anche di fare una panchina in Nazionale “A” solamente nell’era dei Ghezzi, dei Buffon, degli Albertosi e dei Zoff. Che non si ammalarono mai né si infortunarono, e, quindi, era una questione di fortuna poter subentrare a loro, applicare il “mors tua, vita mea””.
Era forte anche nelle parate basse? “Sì, sì, io non avevo difficoltà. Naturalmente, nelle parate basse il problema era riuscire a distendersi e per questo bisognava essere molto veloci nello scatto, nei riflessi, importantissimi in quelle circostanze. Per il resto, nelle situazioni difficili me la cavavo anche con i piedi”. Era quello che oggi si chiama un portiere tecnico, capace anche di toccare la palla con i piedi. “Ho detto che non giocavo con i piedi, ma paravo con i piedi. E’ diverso: anzi, nonostante avessi giocato un campionato intero da giovane fuori, con i piedi, non c’era ancora la regola quando giocavo io. L’obbligo di prendere sui retropassaggi la palla con i piedi: questo mi era stato risparmiato fortunatamente. Altrimenti, solo quando si prendeva qualche iniziativa fuori dall’area, però, in quei tempi era raro”. Era facilitato a toccare bene la palla di destro per i suoi trascorsi di ala, o no? “In un certo senso, un po’ di dimestichezza l’avevo, però, quando parlo di piedi, parlo sempre di interventi sui tiri ravvicinati o rasoterra, e ovviamente non si faceva tempo a distendersi, ad andare giù per compiere la parata classica, e la facevo con i piedi”.
Quale è stato il momento in cui si è sentito più felice come calciatore? Quando ha vinto la Coppa dei Campioni, o quella Intercontinentale a Buenos Aires? “Durante il periodo della Coppa dei Campioni, vinta nel 1969, con le due partite giocate nel Regno Unito: la partita giocata a Manchester e la partita di Glasgow contro il Celtic. No, quando vincemmo la Coppa dei Campioni, non provai una gioia sfrenata perché la finale fu condizionata dal 4-1 maturato e il Milan era in stato di grazia e non ci fu quindi bisogno dei miei interventi”. A Manchester e a Glasgow invece, parando un po’ di tutto, si sentì più protagonista, più eroe… “Sì, sì, ovviamente è dipeso dall’attività dell’attacco avversario, che in quelle due partite lì fu davvero forte dal punto di vista tecnico e continuo nell’assalto alla porta. In Inghilterra giocarono con una certa intensità, continua, fatta di attacchi a tutto spiano. Anche perché per loro c’era da ribaltare il verdetto negativo dell’andata a Milano”. Erano diventati dei veri e propri leoni… “Sì, sì, soprattutto, il Manchester in Inghilterra in quegli anni era molto forte, come tutte quelle squadre anglosassoni in genere”.
L’avversario più forte contro cui ha giocato? “Beckenbauer”. Non è stato Cruyff o George Best? “No, no, Cruyff in quel periodo lì nell’unica partita che lo incontrammo fu nella finale di Madrid, non era ancora affermato: era il giovane che stava emergendo ma in quella partita lì Trapattoni gli fece fare una figura barbina, nel senso che non riuscì a fare nulla di particolarmente pericoloso. Invece, non parlando di attaccanti, il giocatore che ho ammirato di più tutte le volte che l’ho incontrato è stato Beckenbauer”. E George Best: ci ha giocato contro il genio e sregolatezza del Manchester United? “Eh, sì, contro di lui ho giocato in quella partita, di cui parlavo prima, e quella volta fece davvero il diavolo a quattro. Era davvero un grande giocatore. Purtroppo, tutta la sua forza tecnica e la grande individualità di cui disponeva non era supportata – parlo sotto l’aspetto della costanza di rendimento – da un grande equilibrio”. Un grande Cudicini, ma anche una signora difesa… “In quegli anni, senza dubbio, quella del Milan era una difesa di grande valore sia per le situazioni individuali sia per la coralità delle prestazioni: ragazzi bravissimi, che si aiutavano l’uno con l’altro e rendevano meno pericoloso l’atteggiamento di attacco degli avversari. Cavavano sempre il classico ragno dal buco anche in situazioni pericolose”. Parlando di cavare un ragno dal buco…Una difesa formata da Anquilletti, dal Trap… “Come difensori veri e propri, Rosato e Anquilletti erano i più bravi, anche perché Rosato è stato in Nazionale diversi anni ed è facile parlare anche con dispiacere di Rosato perché non c’è più”. E Malatrasi, di Calto di Rovigo? “Malatrasi era un giocatore molto esperto, che si identificò poi nel ruolo di libero con grande successo perché Rocco lo reinventò libero (allora si giocava col libero). Tra i liberi fu senza dubbio, in assoluto, il migliore che io ebbi come compagno di squadra sia nella Roma che nel Milan”.
Lei crede in Dio? “Sì, ma non sono particolarmente osservante al massimo; però, una fede cristiana con annessi e connessi ce l’ho”. Come se lo immagina l’Aldilà? “Mah, è una domanda, diciamo, che mi sono fatto più volte anch’io perché non ho certezze. Come fantasia, penso a un mondo più bello, a un mondo molto diverso dal caos di quello in cui viviamo adesso e cristianamente più buono, migliore, vissuto secondo la prassi cristiana. Deve essere, lassù, una cosa celestiale, come si suol dire, insomma”. Chi vorrebbe ritrovare per primo Rocco o i suoi genitori? “Beh, prima i miei genitori, ovviamente, poi, siccome considero Rocco per me come un papà, e quindi, subito dopo loro vorrei riabbracciare lui”. I suoi genitori cosa facevano? Mamma Alda, diminutivo di Esmeralda, era casalinga, mio papà ha fatto la carriera bancaria, passando da impiegato a direttore di filiale. Il papà si chiamava Guglielmo, detto “Mino”. Il papà aveva giocato anche lui a calcio e da lì l’abbreviativo. Era terzino sinistro e ha giocato anche nella Ponziana, la squadra in cui sono cresciuto prima di passare all’Udinese, alla Roma e al Milan, ma, soprattutto, nella Triestina”. E sicuramente avrà giocato con Rocco… “Sì, dagli anni Venti agli anni Trenta, sul finire della sua carriera. Rocco era mezz’ala sinistra”.
L’unico rimpianto è non aver potuto giocare in Nazionale? “Ho fatto le giovanili, la nazionale “B”, la riserva a Zoff nella Nazionale “A”, ma, nel campionato del Mondo di Messico 1970, durante le gare di eliminazione. E’ successo a Berlino Est, contro la Germania della DDR, anche se in panchina, ma, ugualmente la ritengo importante. A parte questa, della Nazionale, grossi rimpianti non ne ho avuti, anche perché le soddisfazioni sono state tante e, quindi, non ci sono rimpianti”. Più forte Fabio o Carlo (suo figlio) Cudicini tra i pali? “Io sono un portiere costruito, vengo, come le ho detto prima, dal tennis, facevo tutti gli sport oltre al calcio; lui, invece, è nato portiere, proprio fin da quando era piccolo, anche perché l’ho preso sotto le mie cure, e siccome, a lui piaceva stare in porta, anche da piccolino l’ho avviato io a questo ruolo. E, parlando, di quando aveva cinque-sei anni, si può dire che è nato portiere. Quindi, con tutti gli annessi e connessi, la sua è stata una vocazione spontanea, mentre io ero un portiere costruito e, man mano che andavo avanti, ovviamente imparavo sempre di più e mi esibivo sempre meglio”. La più bella battuta rivolta a Fabio Cudicini dal “paron” Rocco? “La più bella fu in occasione di una papera gigantesca in una partita a Torino, con il Toro, in cui vincevamo noi del Milan 1 a 0 e presi un gol da Agroppi, che in vita sua aveva segnato pochissimo”.
Agroppi le fece gol di piede o di testa quella volta? “Di piede: un tiro da venti metri che, complice un po’ il terreno ghiacciato perché in pieno inverno, il pallone slittò su una lastra di ghiaccio e mi passò in mezzo alle gambe. Quando rientrammo nello spogliatoio, durante l’intervallo, siccome la squadra non stava giocando proprio bene, Rocco rimproverò un po’ tutti e sempre in vernacolo triestino disse: “Non te digo niente perché una monada così grossa non merita neanche che ne parli” (“non ti dico niente perché un infortunio, una papera del genere non merita neanche di essere discussa”). E così tra l’ilarità generale sdrammatizzò il momento nero della squadra, perché, ripeto, stavamo giocando malissimo”. Quand’è che ha pianto di gioia, quando ha sollevato al cielo di Buenos Aires la Coppa Intercontinentale? “Calcisticamente parlando, non posso dire di avere pianto. Soddisfazione sì, gioia sì, ma non pianto. Casomai pianto una volta sola, per una questione di rimproveri da parte del “paron”, ma, non durante una partita bensì durante un allenamento. Parole piuttosto pesanti. Naturalmente, col senno di poi ho capito, che dovette farlo per stimolare un mio maggiore impegno – chiamiamolo così, anche se io ho dato sempre il massimo di me stesso durante le sedute atletiche settimanali -. Ma, siccome le trovai, allora, ingiuste perché l’impegno era l’unica cosa che non mi mancava, ma, era, il mio, un pianto rabbioso per essere stato in quel momento ferito ingiustamente, senza colpa”. Un portiere come Cudicini chi potrebbe essere oggi? “Fino a qualche tempo fa, senza dubbio, Sebastiano Rossi. In questi tempi, non direi che ci sia qualcuno che mi assomigli”.
Andrea Nocini per www.pianeta-calcio.it 4 gennaio 2012