Si è spento per un male incurabile a 64 anni Paolo Rossi, uno dei più grandi attaccanti della Nazionale Italiana che anche grazie a lui, nel 1982, sotto la guida di mister Enzo Bearzot, conquistò in Spagna il suo terzo Mondiale. “Pablito” segno ben 6 gol nelle fasi finali e la mitica tripletta che permise di battere 3 a 2 il Brasile. Quelle gesta gli valsero il Pallone d’Oro del 1982 ed un posto nel cuore dei tifosi italiani. Paolo Rossi era ricoverato all’ospedale Le Scotte di Siena e lottava da tempo contro un tumore ai polmoni. Rossi fu il secondo giocatore italiano a ricevere il “pallone d’oro” dopo quello vinto da Gianni Rivera nel 1968. Dopo di lui solo a Roberto Baggio, nel 1983, fu riconosciuto l’ambito premio. Per ricordarlo vi riproponiamo la bella intervista del nostro direttore Andrea Nocini fatta nel febbraio del 2003.
Paolo Rossi o Pablito? “Pablito, Pablito, vai, che è più familiare”. Esiste un Pablito dilettante, quello che ha iniziato nella squadra del suo paese? “Sì, come tutti i ragazzi, credo. L’inizio è comune a tutti: sono le squadre di provincia, del borgo o del rione dove sei cresciuto. Anch’io ho fatto la mia piccola trafila, ho iniziato piano piano, anche se poi a 16 anni ero già nelle giovanili della Juventus, per cui ho dovuto bruciare le tappe in fretta per acquisire un certo tipo di mentalità all’interno di una grande società. Il calcio dilettantistico e giovanile è una forza importante nel nostro movimento. Anche a livello sociale, credo sia una bella realtà. C’è tanta gente che fa della passione e il volontariato la ricetta della sopravvivenza di questi club di periferia, e, quindi, tanto di cappello a chi profonde energie in questo settore.
Il primo gol di Paolo Rossi ragazzino… “Devo dire che da bambino segnavo molto, tantissimo. Faccio fatica a ricordarmi il primo. Ho iniziato in ritardo rispetto ai ragazzini d’oggi, che vengono a contatto col pallone a 6-7-8 anni”. La tua prima maglietta indossata da piccolo calciatore? “Certo perché avevamo un dirigente che aveva formato la squadra con tutti i ragazzi del paese, e, cosa incredibile per essermi successo poi in carriera, questa maglietta aveva i colori della Nazionale brasiliana. Si può dire che quella maglia ha segnato un po’ il mio destino”. E, a quel famoso Brasile di Falcao in Spagna, tu hai rifilato tutti e tre i gol della vittoria dell’Italia… “Sì, però è stata tutta la Nazionale a battere il Brasile, non solo Paolo Rossi”.
Qual era il tuo idolo da ragazzino? “La mia famiglia era molto sportiva, mio padre era tifoso della Fiorentina. Mio papà da ragazzino mi portava a vedere le partite dei viola – sono toscano di Prato -, e mi ricordo che all’epoca giocava Hamrin, un giocatore della nazionale svedese – sì, “Uccellino” – che mi piaceva molto ed era l’idolo dei tifosi della Fiorentina. Mi piaceva come caratteristiche, il suo modo di giocare, e, tra l’altro, io ho iniziato giocando ala destra per molti anni”. Sei arrivato alla ribalta anche perché Gibì Fabbri ti ha trovato un nuovo ruolo, o no? “Molte volte gli allenatori hanno un peso importante nella carriera di un giocatore, ma, Fabbri è stato la persona che mi ha cambiato di ruolo perché mi ha trasformato da ala destra in centrattacco e prima punta. Poi, sotto l’aspetto umano, è stato una persona straordinaria per me, ha recitato un ruolo preponderante per il sottoscritto, non c’è dubbio. In un calcio così atletico, lui, Fabbri, allora era un controcorrente, perché atletica poco e molte partitine per meglio insegnare la tecnica. Sì, Fabbri ha anticipato la figura dei preparatori atletici: una volta era l’allenatore che faceva tutta, che curava la parte fisica e tecnica. Fabbri era un grande innamorato della tecnica: voleva che tutti i giocatori, da chi cominciava a costruire il gioco – quindi, anche i difensori -, fosse in grado di giocare col pallone, costruire gioco e attaccare. E’ stato un precursore della “globalizzazione del calcio”. Pochi anni dopo, infatti, i terzini cominciavano a spingersi in avanti, ad attaccare, proporre”.
Il gol più bello di Paolo Rossi? “Il più bello è sempre difficile ricordarlo; diciamo che ricordo il più importante, quello che ha un significato maggiore e che la maggior parte degli sportivi ricorda. I tifosi delle squadre dove ho giocato si ricordano un gol particolare, ma, anche quelli che tifano la Nazionale. E, questo mi fa piacere, perché in fondo essere ricordato e accostato spesso alla maglia azzurra ci ha unito un po’ tutti e quella maglia ci fa dimenticare di essere tifosi della Juve, del Milan, dell’Inter, della Roma. Il gol più importante è stato il primo gol al Brasile nei Mondiali del 1982. E’ stato per me fondamentale, non importante, ma mi è servito per sbloccarmi dal punto di vista mentale. E, poi, il primo gol della finale a Madrid contro la Germania”.
C’è anche un Pablito che scende in campo per la beneficenza… “Credo che tutti noi dobbiamo poter contribuire, seppur in maniera minima, a qualche causa importante”. Esistono ancora giocatori alla Paolo Rossi in questo calcio che corre sempre di più. Inzaghi può assomigliare a Pablito? “Ebbè, non ha caratteristiche simili alle mie, ma è un grandissimo giocatore. Pippo Inzaghi è un giocatore estremamente continuo, pronto in area a sfruttare qualsiasi errore, molto freddo sotto rete, imbattibile nel breve. Io nasco come alla destra e non ero uno che finalizzava e basta, ma mi piaceva lo scambio e giocare anche per gli altri, e non esclusivamente votato per il gol. Certo che, quando giochi davanti, il gol è fondamentale”.
Perché non hai mai fatto l’allenatore? “Ma, io credo che per fare l’allenatore uno se lo debba sentire dentro. Io quando ho smesso di giocare, avevo bisogna di staccare per un po’ e ritornare alla vita normale, e allora ho preferito uscire da quel mondo. Poi, non mi è più venuto lo stimolo, e, se non hai la molla…Poi, ho visto che anno dopo anno il ruolo dell’allenatore è diventato sempre più difficile, delicato. E’ più piacevole giocare a pallone, ma, gestire trenta giocatori non è così facile come uno può credere”. Qual è stato il rimpianto più grande di Pablito, l’autogol più memorabile della tua carriera? “Ci sono alcuni episodi: uno è il gol nella finale di Coppa Campioni con la Juventus, quando abbiamo perso nel 1983 contro l’Amburgo ad Atene per 1 a 0. E’ stata una sconfitta che non ci aspettavamo, tanto eravamo convinti di vincere. Però, nell’arco di una carriera, bisogna sempre mettere in preventivo che non sempre si può vincere. Ma, forse, il calcio è bello anche per questo, nell’alternare gioie a momenti di forte delusione. Mi ha insegnato che anche per vincere contro avversari più piccoli devi sempre mantenere alto il livello di concentrazione, di determinazione e di umiltà. E, questa è la base per ottenere il successo”.
In questo calcio di adesso, sempre più marketing e meno dribbling, farebbe ancora la sua ottima figura il Paolo Rossi degli anni 80? “Rispetto alla mia epoca, che era quella di 15-20 anni fa, l’industria del calcio è cambiata, ed è enormemente cresciuta. Una volta non si parlava di Media in maniera così preponderante, di piattaforme satellitari, di diritti e pay tivù, ecc, di sponsorizzazioni cresciute a livello esponenziale in quest’ultimi dieci anni. Da un punto di vista tecnico, c’è stato sicuramente un miglioramento. Non si possono confrontare in ogni sport epoche diverse tra loro. Certo che questo calcio è un pochino più frenetico, più complicato, difficile, ma sono convinto che per uno che ha la passione è ancora bello e spettacolare come il grande calcio che si vede in Inghilterra e in Spagna”.
Ma, perché si fa sempre vedere la corsa a braccia levate verso il cielo di Marco Tardelli e non invece, l’urlo, la gioia immensa del Pablito cannoniere del Mundial di Spagna? “Io credo che più importante è stato il segreto di quel trionfo, la grande amicizia e l’unione che regnava all’interno di quella squadra, di quell’ambiente. Gran parte del merito di quel magnifico gruppo spetta a un mister eccezionale come Enzo Bearzot. Poi, al carattere di quegli azzurri”.
La redazione di www.pianeta-calcio.it