Si è spento ieri, a quasi 79 anni, Mario Corso. Mariolino, così lo chiamavano gli amici, era nato a San Michele Extra di Verona il 25 agosto del 1941. E’ proprio nell’Audace San Michele Extra si era messo in mostra, esordendo giovanissimo, non ancora 16enne, in serie D con i rosso-neri veronesi nello storico stadio “Tiberghien”. E’ poi stato l’Inter del presidente e cav. Angelo Moratti a scoprirlo e a lanciarlo nell’Olimpo del grande calcio con l’allora mister dei nerazzurri che era il grande “mago” Helenio Herrera. Corso con la squadra milanese ha conquistato 4 scudetti (1963, 1965, 1966 e 1971), 2 Coppe Intercontinentali (1964 e 1965) e 2 Coppe dei Campioni (1964 e 1965). Vanta una ventina di presenze nella Nazionale Azzurra e 75 gol nelle 412 gare disputate in serie A. Il “Sinistro di Dio”, l’inventore delle micidiali punizioni a “foglia morta” ha chiuso la carriera da calciatore in serie B con la maglia del Genoa. Come allenatore, ha guidato il Mantova ed anche la Primavera dell’Hellas Verona. Era sposato con Enrica, ma non ha mai avuto figli. Ci siamo sentiti al telefono della sua casa di Milano, verso fine gennaio, prima che scoppiasse la “peste del 2020”, il Corona virus. A rispondere la moglie Enrica, “vado in camera a chiamarglielo”: ed eccolo con la sua vocina, esile e un po’ graffiata, non certo da baritono per un tenore del nostro calcio, a tracciarci un profilo dell’imprenditore nel ramo degli accessori dei mobili, il “Signor Comferut” Aldo Piubelli, padre dell’ex Verona Paolo, uno dei tanti amici con il quale, ogni volta che tornava nella sua Verona, amava trascorrere piacevoli ore conviviali a “Villa Quaranta”, “buen ritiro” di un altro suo inseparabile stimatore, l’ex audacino Tommasi.
“Mi scusi, potremmo sentirci verso mezzogiorno? Ora devo andare a Messa!” La prima volta che ho conosciuto il “Sinistro di Dio” è stato guardando la foto in bianco e nero che occhieggiava nella sede del tempio audacino del “Tiberghien”, dietro alla scrivania allora occupata dall’ex “sentinella” del Milan del Gre-No-Li, un altro veronese pluriscudettato, Eros Beraldo: ancora un ragazzino più che un adolescente, allora quindicenne come chi come il sottoscritto lo guardava con gli occhi pieni di curiosità. In Piazza del Popolo un pomeriggio di un’afosa estate arrivò un’auto con la targa di Genova: erano i dirigenti della Sampdoria, che avevano raggiunto San Michele Extra per trattare quell'”enfant prodige”, che accompagnò l’Inter del petroliere, il cav. Angelo Moratti a toccare il tetto del mondo più volte. Dopo qualche settimana, ecco però arrivare una lussuosa Mercedes targata Milano: scesero due uomini eleganti e con il fare gentile, che una volta attraversato il portone del “Tiberghien”, chiesero di portare in nerazzurro i già formati Da Pozzo e Guglielmoni: “Ve li paghiamo alla cifra che volete voi” risposero ai dirigenti sanmichelati, “ma dateci sul conto anche quel ragazzino dal sinistro divino!”
All’inizio del Duemila, l’Inter mi incaricò di scortare Mariolino dall’autostrada di Verona est-San Bonifacio alla festa del Club nerazzurro a Cologna Veneta, perché ospite del Club Cologna-Montagnana: non che fosse in grado, eh, con le sue gambe – meglio con la sua automobile di raggiungere il ritrovo (allora non esisteva ancora il ton ton!) -, ma quel 21 marzo il cielo si oscurò a tal punto che scese una spessa coltra di neve e le auto schettinavano impazzite sulla bianca coltre. Ed è stato in quel fragente, durante quella ventina di chilometri ed anche poi a tavola che ho raccolto l’intervista con il grande “pupillo” del cav. Angelo Moratti: che, innamorato del suo talento, lo accolse nella metropoli, come un figlio adottivo, regalandogli una Mercedes Pagoda decappotabile, promessa sciolta per un gol importantissimo, a bordo della quale Corso raggiungeva gli amici e gli ex compagni di squadra audacini in occasione delle rimpatriate a San Michele.
Ma, non era certo un vanesio, Mario, uno sbruffone, tutt’altro: al posto della favella e della sua vocina esile, graffiata come quando una puntina da giradischi non ben ripulita scivola su un disco di vinile di quei favolosi anni Sessanta, ebbene, quell’artiglio del diavolo – messo ancora più in risalto dai calzettoni alla cacaiola (alla pri dei grandi geni, vedi Omar Sivori) – ebbene, quell’arto inferiore mancino parlava già abbastanza da solo, dipingeva capolavori inimitabili, di pomeriggio e di notte, scardinava basculanti difensive, faceva saltare in aria le “dighe” più invalicabili del mondo pallonaro. Lui con i calzettoni alla cacaiola, al suo fianco il gigante buono Jair, la “perla nera”, quello con la flanella sempre oltre la casacca a striscie verticali nere ed azzurre. Mi aveva promesso la maglia di Lautaro “Sì, te la porto quando torno a Verona, a trovare mia sorella Carla” , poi, non ci siamo più sentiti perché la vita scorre via veloce, ingolla tutto, ti rapisce ogni istante. Mi sento orgoglioso di averlo conosciuto, di non averlo stressato richiamandolo e ricordandogli quella maglia, che, colpa del Covid, non farà mai parte della mia collezione. Ma, non pensavo che fosse malato (l’ho saputo molto più tardi!), che lui stava facendo i conti con gli ultimi granelli di sabbia che scendono inesorabilmente nella clessidra del tempo che è concesso a tutti gli esseri umani.
Il destino, più sinistro e malvagio di quel suo sinistro che incantava le folle di stadi popolati da uomini con i capelli lisciati dalla brillantina Linetti, ce l’ha portato via. Più sinistro di quegli autunni, freddi, interminabili, anche noiosi e malinconici, con gli alberi su cui resistevano coraggiose le ultime foglie secche, riscaldati – stadi ed alberi – dai suoi lampi di genio. Ebbene, quelle “foglie quasi morte” abbarbicate a stento su quegli alberi che facevano da cornice, da sfondo alla maggior parte degli stadi di calcio di una volta, quelli in cui lui è cresciuto, ora non rivivranno più quando sui calci piazzati venivano accarezzate, rese importanti, fatte rivivere, loro moribonde: non verranno mai più rese celebri dalle sue stucchevoli “sinistre” pennellate. Ora tacciono, mute ed ancora più gelide; come fa la natura quando, in assenza del suo miglior artista, del suo impareggiabile ritrattista, improvvisamente teme di morire, rischia di sparire perché non ha più chi la canta, chi, per dirla alla Dante, la eterna, la rende cioé poesia, elegia immortale. Quelle “foglie morte” ora tacciono ancora più sole, ancora più immobili perché sanno di poter svanire per sempre, di evaporare come le nebbie del crepuscolo autunnale: quei vapori acquei, quelle atmosfere che tante volte Mariolino Corso ha respirato nella sua adottiva Milano e, prim’ancora, nella sua placenta sanmicheliana.
Andrea Nocini per www.pianeta-calcio.it