lunedì, 28 Aprile 2025
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Il 16 agosto ci ha lasciato il grande Felice Gimondi: fatale per lui un malore a Taormina, aveva 76 anni.

Si è spento il giorno dopo il ferragosto, all’età di 76 anni, Felice Gimondi. Uno dei ciclisti tricolori più forti di tutti i tempi che nella sua gloriosa carriera ha vinto tre volte il Giro d’Italia (nel 1967, 1969 e 1976) , il Tour de France nel 1965 e la Vuelta nel 1968. Ha trionfato anche campionato del mondo su strada nel 1973 e in alcune classiche come la Parigi-Roubaix, la Milano-Sanremo e due volte nel Giro di Lombardia. Assieme ai grandi Coppi e Bartali, Felice Gimondi (bergamasco di Sedrina, dove era nato il 29 settembre 1942) occupava un posto importante tra i ciclisti più forti non solo in Italia ma nel mondo. E’ uno dei cinque corridori ad aver vinto la tripla corona, cioè i tre più grandi giri, ovvero il Tour de France, il Giro d’Italia e la Vuelta di Spagna. Assieme al suo grande antagonista, il “Cannibale” e fiammingo Eddy Merckx, di cui passa alla storia come suo “eterno secondo”. Gimondi ha alzato le braccia al cielo da vincitore per ben 141 volte. Per ricordarlo vi riproponiamo l’intervista del nostro direttore Andrea Nocini fatta il 9 luglio del 2012.

Gimondi, il suo mito è inossidabile, e tra poco compie 70 primavere… “Eh, no, invecchiano anche i miti. Io mi sento un giovane, però, l’età è quella che è, bisogna accettarla, punto e basta”. Qual è stata l’emozione più grande che ha provato da ciclista?“Io credo Barcellona, campionato del mondo perché era impensabile vincere con due belgi, dei quali uno molto veloce che tirava la volata a Merckx. Primo io, secondo Mertens, terzo Ocana, quarto Merckx. Quattro atleti, insomma, di un certo spessore”. Che anno era?“Il 1973, settembre”. Qual è il rimpianto maggiore che ha da corridore e quello nei confronti del “Cannibale”, Eddy Mercks?“Mah, rimpianti nel ciclismo non ne ho perché ho sempre dato il massimo e, quindi, quando uno è a posto con la coscienza, di più non potevo fare ne aspettarmi. Sono abbastanza tranquillo sotto il profilo dell’atleta. Nei confronti del “cannibale”, cosa vuoi?, devo ammettere che lui era più forte di me, io ho sempre fatto di tutto per contrastarlo. Anche nel Mondiale di Mendrisio, sapevo che mi avrebbe battuto in volata, però, regolarmente collaborai perché preferii finire secondo alle sue spalle che magari piazzarmi quarto, quinto e far rientrare gli altri. Quindi, a livello di rimpianti, anche qui, mi sento a posto, di non nutrirne alcuno. Merckx era davvero forte, anzi fortissimo”.

Forte da considerarsi il più forte della storia del ciclismo, secondo lei?“Sì, per me, sì. Coppi ha lasciato una traccia indelebile anche perché ha corso e vinto in un momento particolare della storia non solo dell’Italia ma anche mondiale. Si era appena usciti dalla Guerra, non c’erano continue informazioni come oggi. E non avrebbe la stessa immagine perché si sono sovrapposti continuamente avvenimenti: adesso vedi la tappa del Giro d’Italia, poi, fanno vedere Valentino Rossi che vince di là, oppure la Ferrari che trionfa da un’altra parte del mondo”. Gimondi nel ciclismo italiano sta come Agostini nel motociclismo e Panatta nel tennis?“Sono accostamenti validi perché era tutta gente – ed aggiungerei anche Facchetti – che in quel periodo dominavano la scena dei loro sport, era gente di un certo spessore e poi erano sempre motivati per dare il massimo”.

Già, Giacinto Facchetti, bergamasco come lei…“Sì, Facchetti bergamasco, e poi persona veramente corretta, che io stimavo moltissimo”. Lei crede in Dio?“Non sono proprio un frequentatore assiduo delle chiese, non vado a Messa tutte le domeniche, ma, quando posso, vado. Mi faccio ancora il segno della croce prima di andare a letto”. La sua infanzia, le sue origini?“Io nasco in una famiglia, diciamo così, abbastanza normale. Mio papà era stato in America, non in America in Brasile, dieci anni a fare il boscaiolo per portare a casa un po’ di soldi e poi con mio zio aveva messo su una piccola impresa di trasporti, prima con i cavalli, poi, con i camion. Mia mamma, invece, faceva la postina, cosa che io poi feci il supplente postino del mio paese, poi passai di ruolo e mantenni questo incarico fino a quando – il 1965 – vinsi il Tour de France”. Il suo paese?“Il paese dove sono nato è Sedrina. Ho fatto il postino lì”. Arrivava celermente la posta, le raccomandate con lei in bici, o no?“Bé, normalmente io facevo le frazioni, mentre mia madre faceva il centro del paese. A volte, le toccavano anche le frazioni più sperdute, che si trovavano anche a 150 metri di livello sopra il paese e se la faceva a piedi perché non c’erano allora le strade. Avevamo due frazioni invece che erano in pianura, e allora c’erano da percorrere due chilometri di qua, tre chilometri di là, e mi divertivo pure perché andavo finalmente in bicicletta”.

L’Aldilà: come se l’aspetta, chi vorrebbe ritrovare, chi vorrebbe riabbracciare per primo?“In questo momento, sicuramente mio papà, che non c’è più, e poi tutte le persone che ho conosciuto sia prima che durante la mia carriera. Poi, soprattutto, mi auguro di ritrovarmi accanto a mia moglie, perché è stata la persona più importante della mia vita”. Era figlio unico?“No, secondo di tre fratelli, e, come tutti quelli della mia generazione, dovevamo darci subito da fare. Al sabato pomeriggio, ma, spesso anche alla domenica, dovevo dare una mano a mio papà nella sua officina di camion: dovevo pulirli, ingrassarli, ecc… Certo, sono nato lì, e a 12-13 anni ho imparato a guidare, ancora prima di prendere la patente, i camion”. Se non fosse diventato quel grande campione di ciclismo, cosa le sarebbe piaciuto fare?“Mah, è una domanda cui è difficile rispondere così a secco. Potevo fare il falegname: mi piaceva come tipo di lavoro. Ma, non avevo grandi ambizioni di volare altissimo: mi sarei adeguato a quello che il convento avrebbe passato e basta. Tante volte da bambino ricordo che andavo anche a portare la legna su nelle soffitte perché allora il riscaldamento andava a stufa. Magari arrivava la legna di un amico, mi davano trenta lire, cinquanta, tanto per comperarmi un gelato, qualcosa, insomma”.

Di cosa non può fare a meno Felice Gimondi?“Mah, di cosa non posso fare a meno? Prima di tutto, della mia famiglia, perché quando ho smesso di correre non ho scelto di ricoprire incarichi prettamente tecnici; sì, ero team manager che gestivo la Bianchi, però, non ho mai dato la presenza continua sui campi di gara. Adesso, a quasi settant’anni, farei fatica a fare a meno di lavorare, di fare qualcosa perché ho paura di andare in pensione e di annoiarmi”. Che lavoro svolge?“Curo ancora le pubbliche relazioni per la Bianchi, e poi gestisco direttamente una società sportiva di mountain bike, dover abbiamo oltre una squadra di 25 atleti, abbiamo 6-7 ragazzi interessanti a livello Esordienti, Allievi e Junior. Poi, gestisco una scuola di mountain bike, con un monsignore della curia del mio paesino, e faccio l’assicuratore”. La felicità l’ha conosciuta, e in che cosa consiste?“Mah, la felicità, per me, è costituita dalle cose più semplici della vita. Sì, in qualche circostanza può essere quella di vincere una gara importante, ma, importante è il giorno in cui mi sono sposato, quando sono nate le mie figlie, queste cose qua”. Una felicità che dipende da avvenimenti, o no?“Sì, gli avvenimenti che vivi tutti i giorni alla fine diventano i più importanti”.

La giustizia, la libertà: sono utopie oppure esistono nella vita terrena? “Ultimamente, siamo un po’ pressati in tutti i modi sia dal fisco che dai controlli che subiamo adesso anche nel prelievo dei soldi, che, tutto sommato, ci appartengono. Siamo condizionati da troppe regole, forse, per colpa di altri. Ma, nella giustizia dobbiamo crederci, così come la libertà possiamo raggiungerla”. Quand’è che saremo veramente liberi?“Mah, sai, completamente libero uno non potrai mai essere perché se ha famiglia, bene o male, uno deve rinunciare a qualcosa per gli altri. Il lavoro diventa un’alternativa: io preferisco avere dieci problemi sul lavoro, ma nemmeno uno in famiglia”. Era superstizioso quando correva?“Correvo con un laccetto legato ad una gamba perché da ragazzino soffrivo sempre di mal di gambe: si vede che ero cresciuto in fretta e tante volte quando le garette erano un po’ lunghe mi recai da una Madonna, la Madonna della gamba, mi feci benedire dei laccetti di cotone, che tenevo sistematicamente su una gamba”. Avevamo sentito della Madonna del grembiule; ma, esiste anche una Madonna della gamba?“Sì, sì, sì. Quella del grembiule non la conosco, ma, conosco anche la Madonna della cornamusa, che è proprio lì in zona dove abito io. E’ una specie di caverna dentro la roccia, dove c’è la Madonna e ci sono esposti diversi quadretti per grazia ricevuta. Dove ho portato anch’io una mia bicicletta”.

Quand’è che ha pianto di grande dolore?“Sicuramente per la perdita di mio papà, Mosè, e poi per la scomparsa di amici che hanno corso con me, hanno collaborato con me, il povero Gigi Salvarani, il mio primo presidente. Persone che mi hanno lasciato dentro qualcosa”. Quindi, non s’aspetta di vedere nell’Aldilà una bella pista da corsa in bicicletta?“Io lo spero: spero” sorride Gimondi “che ci siano tante di quelle piste ciclabili, senza macchine, per poter scorrazzare come uno vuole e sentirsi libero. Tutto sommato, credo, comunque, che anche dopo ci sia qualcosa, ecco”. Quand’è che saremo davvero liberi, allora? Quando saremo morti?“Sì, bravo!”- altro sorriso del campione bergamasco -. Ha mai giocato a calcio?“Sì, giocavo io. Giocavo ala destra sempre sul campetto dell’oratorio del mio paese. Facevo il Torneo provinciale indetto dal CSI, il Centro Sportivo Italiano. All’inizio, molti soldi non li avevamo, la bicicletta non è che ho potuto averla subito, anche se la mia passione era quella. Poi, un giorno mio papà, dovendo andare a incassare un trasporto di sabbia da un cliente che non pagava mai, mi promise: “Se mi paga, ti compro la bicicletta”. Questo ci ha pagato, nel ritorno ci siamo fermati da un ciclista che conoscevamo, e mi ha comprato la bicicletta. E sono andato a casa in bici a piedi scalzi, perché allora si usavano i sandali, gli zoccoli” ed, alé, altra gustosa risata del nostro interlocutore.”

Senta, Gimondi, ha mai incontrato dei papi; magari quel papa Giovanni XXIII, papa Roncalli, bergamasco come lei?“Sì, un anno siamo partiti dal Vaticano, una volta ho incontrato, non so se Pio XII, e poi anche Wojtyla. Questo quando si partiva dalla Città del Vaticano”. Che ricorda conserva di questi pontefici?“Papa Giovanni XXIII non l’ho mai incontrato personalmente ma ho l’ho seguito sui giornali, alla tivù: è stato un papa che ha lasciato un segno indelebile nella storia della Chiesa, credo. Era un papa semplice, vicino alla gente, che viveva a contatto con i problemi della vita. Oppi, purtroppo, è diventato ancora più impegnativo quel tipo di incarico che hanno i pontefici, ed hanno meno tempo di dedicarsi a questi rapporti interpersonali, che per me sono fondamentali nella vita”.

Tifava Inter, Milan oppure Atalanta?“Atalanta, Atalanta secco, sempre, tant’è vero” se la ride Gimondi, aggiungendo “che a mia mamma bastava distrarsi un attimo perché io guardassi “L’Eco di Bergamo” per vedere i commenti sulla partita al lunedì, o al martedì, perché in quest’ultimo giorno appariva il riassunto di tutti gli altri giornali sportivi”. Cosa le raccomandavano ogni volta i suoi genitori quand’era ragazzino?“Le cose più giuste, di essere corretto, di dare agli altri quello che si poteva dare e poi fare le cose in modo serio e, come si usa dire quando si va in bicicletta, di “menare”, di pedalare. Concetto che vale sia in bicicletta come nella vita. La bicicletta è la parodia della vita: se tu ci mette l’impegno ottieni risultati: così nella vita e nel lavoro, in tutto. Altrimenti diventa dura!”La mamma è ancora al mondo?“La mamma l’abbiamo festeggiata domenica scorsa (ndr, 1° luglio), ha compiuto 102 anni e si chiama Angela. Poi, un altro passaggio importante è il mio nipotino: ha tre anni e mezzo, e si chiama Davide. Ogni tanto, specialmente quand’era più piccolo, lo portavo a bordo della mountain bike sulle piste ciclabili, dove c’è un po’ di verde, lontano dalle strade asfaltate, quelle percorse dalle automobili”. Gimondi, non le hanno mai detto che l’unico suo peccato, l’unica sua pecca è che troppo normale, troppo modesto?“Io credo che ognuno di noi deve essere quello che è. Tante volte, devo essere sincero, quando mi invitano dove ci sono cene, discorsi, eventi, mi rompo le palle, perché poi alla fine dicono le stesse cose”.

Andrea Nocini per www.pianeta-calcio.it

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