martedì, 22 Aprile 2025
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Le riflessioni di un giovane calciatore che ha deciso di smettere di giocare a calcio.

Tutto inizia come un divertimento, un’occasione sociale per passare del tempo con i propri amici, per trovarne di nuovi, per imparare delle regole, per crescere e per capire che la perseveranza è tutto. Il calcio comunica dei valori, è una scuola-esperienza che può darti tanto e che può dirti molto su come funziona il mondo permettendoti di prepararti ad affrontarlo. Incazzature, pianti di gioia, animate discussioni e il gioco di squadra sono solo alcuni dei pezzi del puzzle che rappresenta. Presto, in giovane età, diventa una passione oltre che un divertimento: la linea che separa le due dimensioni è molto fine come, d’altra parte, quella che, dopo essere maturati, ti porta a concepire il calcio non più come un divertimento, ma come un impegno che non ti dà abbastanza soddisfazioni ed è quest’ultimo passaggio quello che è capitato a me, poco più che ventenne, che mi ha portato ad appendere le scarpe al chiodo. D’altra parte queste importanti decisioni si possono prendere solo dopo “essersi guardati allo specchio” e solo dopo aver capito che tipo di persona siamo e chi vorremmo diventare. Sono sempre stato fedele ad una squadra, se non per i primissimi calci (di cui non ho nemmeno ricordi) e per un’esperienza in prestito che mi ha permesso di mettermi in discussione. Nello specifico sono sempre stato fedele alla squadra che mio padre ha costruito e per la quale ha dato tutto.

Parlo di un legame ombelicale che non si era mai rotto fino a quest’anno ossia fino al momento in cui mi sono reso conto di dovermi mettere davanti agli interessi di chiunque altro, anche se di mio padre. Posso affermare, che tutto questo lo ha costruito per me oltre che per sé stesso ed è dunque facile immaginare quanto sia difficile prendere una decisione del genere che evidentemente ha portato delusione e frustrazione nei miei confronti. Ho cominciato a provare sentimenti contrastanti nell’esatto momento in cui, prematuramente, sono stato inserito “fra i grandi” ossia nel giro della prima squadra. Mi spiego meglio: da bambino non c’era allenamento a cui non andassi almeno un’ora prima per poter stare con i miei amici, divertirmi a calciare ed evadere da problemi che potrei oggi definire di basso calibro relativi alla scuola e nello specifico ai compiti, alle verifiche, alle interrogazioni. Man mano che è passato il tempo, tutto questo è andato a perdersi con il risultato che andavo a calcio non più per divertirmi bensì per incazzarmi e viverlo come uno stress. Nel mio percorso ho visto abbandonare questa passione un amico dopo l’altro e non serve dire che, per quanto le persone che ho trovato al loro posto si siano rivelate fantastiche, non è mai stata la stessa cosa.

Entrando nel mondo dei grandi, dove il dio denaro ha sempre avuto e sempre avrà l’ultima parola, ho perso la voglia di giocare a calcio e l’unico motivo per cui sono riuscito a tenere duro così a lungo negli ultimi anni è il fatto di non voler vedere stare male mio padre e deluderlo. I motivi possono essere questi o molti altri, ma si arriva ad un punto in cui ci si rende conto di dover avere il coraggio di prendere certe decisioni per sé stessi e capire che, nel mio caso, avevo ed ho tutt’oggi il diritto di essere capito perché le persone che si hanno accanto presto o tardi capiranno, mettendo da parte le proprie convinzioni e preconcetti, che è giusto che ognuno faccia ciò che lo rende felice o che ritiene giusto. L’esperienza che ho vissuto mi ha fatto diventare un uomo, giocare a certi livelli essendo “il figlio di” non è mai stato facile e questo è un altro motivo per cui ho dato tutto nella mia carriera calcistica: il dover dimostrare di essere all’altezza, di essere un giocatore qualunque e di non essere arrivato dove sono arrivato grazie ad altri ma solo grazie a me stesso.

Forse direte: “Beh, potevi cambiare squadra, fare nuove esperienze” e non vi darei torto. Avrei potuto, ma non mi è stato permesso più di una volta, non a causa di mio padre ma di altre persone, e anche avessi potuto staccarmi da qualcosa che sentivo costruito per me e da una maglia che ho sempre amato forse non ci sarei riuscito ma il motivo principale è che con il passare del tempo ho cominciato a sentirmi un estraneo all’interno di un ambiente dove addirittura ero cresciuto, figuriamoci altrove. Parlo di un ambiente in cui questo sport per la maggior parte è diventato un lavoro ed un vero impegno finalizzato ad arrotondare lo stipendio (se non raddoppiarlo, il che per me è ridicolo in categorie medio-basse) e non più un divertimento: forse una passione certo, ma una passione malata che ci rende persone di sicuro non migliori portandoci ad insultare i nostri compagni per un passaggio sbagliato, l’arbitro per un errore (umano) durante la direzione della gara oppure il mister per delle scelte che non condividiamo. Sia chiaro, non sono mai stato così ed è per questo motivo che mi sentivo un pesce fuor d’acqua che non avrebbe mai voluto diventare così perché per quanto possiamo dire di essere delle brave persone e coerenti con dei principi sani senza rendersene conto tutte le esperienze che viviamo ci cambiano.

Sia chiaro inoltre che tutto ciò non è un’offesa a questo mondo che tanto ho amato, ma una critica o meglio un punto di vista perché la mia non è altro che una valutazione soggettiva ed il giocatore anziano può legittimamente affermare che è così che funziona e anzi, funziona bene. Ed è legittimo proprio perché con l’avanzare degli anni, da parco giochi quel terreno erboso si trasforma in una zona di guerra e sta ad ognuno di noi capire, in base alle nostre valutazioni e motivazioni, se siamo adatti a combattere tutte quelle battaglie ed io personalmente ho preso la decisione di combatterne delle altre e di concentrare le mie energie altrove, non perché non fossi all’altezza, bensì perché ho capito che per me ci sono altre priorità come la mia carriera universitaria, il lavoro e le relazioni per cui vale la pena investire il proprio tempo, ossia una delle ricchezze più grandi che possediamo. Bisogna capire se quello che si fa e si mette in atto ci valorizza e soprattutto capire se le persone che sono al nostro fianco ci mettono in luce e ci aiutano a crescere. Un ambiente come quello del calcio non è per tutti e sono fermo nel dire che non è sinonimo di insicurezza e poca personalità, piuttosto è sintomo di forza, ammetterlo: soprattutto nel momento in cui lo si fa solo per rendere felice qualcun altro.

Negli ultimi anni mi sono sentito sempre più al centro dell’attenzione per essere “il figlio di” e sempre più emarginato e non capito sul campo e tutto ciò è anche colpa mia perché sono arrivato ad un punto in cui per me non ne valeva più la pena di dare tutto, per qualcosa che prima o poi sarebbe finito. Non è il calcio per cui mi sono appassionato, non ci sono più i presupposti che mi permettono di viverlo come un gioco e per quanto a tutti facciano comodo i rimborsi che ricevono, non essendo il motivo per cui un calciatore dovrebbe giocare a calcio ho deciso di mettere la parola fine vedendo in tutto ciò una presa in giro alla passione che mi ha fatto crescere. Quello che ho fatto, è stato dare una svolta alla mia vita ed uscire da quella che ormai, per me, era diventata una gabbia. Personalmente, sono alla ricerca di una competizione più sana, che sia nel mondo del lavoro o nello studio perché, forse mi ripeto, ma ritengo più importante dimostrare a me stesso di valere in altri “campi”: d’altra parte a quale bambino, non viene detto almeno una volta nella vita, che prima del calcio vengono tante altre cose?

Io l’ho vissuta così, tanti potrebbero aver vissuto il calcio in maniera del tutto diversa, o chi simile ma è anche questo il bello del calcio: tutti noi rispondiamo diversamente all’ambiente in cui veniamo inseriti e proprio questo ambiente può dare tanto ma anche togliere. Da parte mia ho sempre avuto rispetto per tutti e proprio perché non volevo continuare a danneggiare la mia squadra ho deciso di abbandonarla: se non si sta bene con sé stessi e se non ci si sente a proprio agio è difficile dare il massimo e così, oltre a danneggiare sé stessi, si finisce anche per condizionare il gruppo. Il mondo è bello perché è vario ed il calcio perché non lo è.

Lettera alla redazione di www.pianeta-calcio.it

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