Melania Gabbiadini, icona del calcio femminile italiano, anzi del calcio italiano. Nata il 28 agosto del 1983 a Calcinate, piccolo paese alle porte di Bergamo. Nella sua carriera ha collezionato oltre 300 presenze e 260 gol in serie A con le maglie di Bergamo prima, e Verona poi. Non sono numeri di Cristiano Ronaldo o Lionel Messi, ma di un altro fenomeno, al femminile; capitano del Verona per dieci anni e da sempre bandiera della nazionale italiana. Gabbiadini, colei che ha sempre dato più importanza al nome davanti alla maglietta rispetto a quello sulle spalle.
A VERONA CUORE E GLORIA
«Mi sento – dice Melania Gabbiadini – una parte importante del club, e aver condiviso con il Verona così tanti successi è una bella soddisfazione. Lo scudetto più emozionante? Quello del 2015 ha un sapore speciale: conquistarlo da capitano è una sensazione unica». 269 presenze in serie A e 220 gol segnati, 66 presenze in Coppa Italia e 73 gol realizzati, 26 presenze in Champions League e 18 gol portanti la sua firma. Gabbiadini, colei che ha sempre dato più importanza al nome davanti alla maglietta rispetto a quello sulle spalle. Questo lo dimostra anche il fatto che quasi tutta la sua carriera l’abbia vissuta indossando la maglia scaligera. Dal 2004 al 2017 Melania ha sempre sudato solamente per una città: Verona. Il legame che c’è tra Gabbiadini e Verona è ormai indissolubile. Oltre ad aver trascorso tutta la sua carriera con lo scudetto scaligero sul petto, tutti i suoi trionfi sono avvenuti nel veronese: 5 scudetti, 2 Coppe Italia, 2 Supercoppe italiane, e aver raggiunto nella stagione 2007/08 la semifinale di Women’s Champions League. Dopo aver vinto tutto, nell’estate del 2017 decide di dire “addio” al calcio giocato. Adesso segue un’altra sua grande passione: allenare. Da settembre, infatti, durante i pomeriggi, calca i campi del settore giovanile del Cittadella ed insegna alle sue “under 13” la strada per raggiungere i massimi livelli e, soprattutto, per inseguire i loro sogni.
DA BOLGARE ALL’HALL OF FAME
«Entrare a far parte della Hall Of Fame – ha detto Melania Gabbiadini – è una soddisfazione enorme. Sono onorata e devo ringraziare tutti quanti, a partire dalla Federcalcio che in questo particolare momento sta dando qualcosa in più alla nostra realtà».
Si vedeva già dai primi calci quanto Melania fosse forte. A Bolgare, dove abitava con la famiglia, il suo talento spiccava fin da bambina: i maschietti la vedevano dribblare, segnare, vincere, segnali inequivocabili di un inizio di carriera che l’avrebbe portata, 25 anni e tanti successi dopo, a scrivere più di una pagina di storia del nostro calcio. Il 17 febbraio 2017, infatti, Melania Gabbiadini entra ufficialmente nella Hall Of Fame del calcio italiano. Il capitano dell’Agsm Verona e della Nazionale italiana è la terza donna, dopo Carolina Morace e Patrizia Panico, a raggiungere questo riconoscimento, il quale ha lo scopo di ricordare quei personaggi che nella loro carriera hanno lasciato un segno indelebile nel mondo calcistico.
In quell’occasione, assieme a Melania sono stati premiati personaggi del calibro di Giuseppe Bergomi, Paolo Roberto Falcao e Claudio Ranieri. Dopo aver ricevuto il premio da Paolo Maldini, il capitano della Nazionale in rosa si lascia andare alle emozioni e confessa: «Entrare a far parte della Hall Of Fame è un’emozione enorme. Sono onorata e devo ringraziare tutti quanti, a partire dalla Federcalcio che in questo particolare momento sta dando qualcosa in più alla nostra realtà». Come segno di riconoscimento Melania ha donato al Museo del Calcio di Coverciano un paio di scarpini ricevuti in dono dal fratello Manolo.
FRATELLO E SORELLA DEL GOL
«Una volta – racconta Manolo Gabbiadini – ero in tribuna: la vedo tirare, palla sulla traversa e pallone bucato. “Cavolo se è potente mia sorella”, ho pensato. La seguivo con I miei, da bambino, e volevo essere forte come lei. Cosa mi ha insegnato? L’umiltà». Gabbiagol, li chiamano. Melania e Manolo i fratelli con lo stesso fiuto del gol. Entrambi hanno dato i primi calci ad un pallone a Bolgare, paesino alle porte di Bergamo dove sono nati e cresciuti. Lei del 1983, lui del 1991. Il pallone nella loro casa non mancava mai. Era il protagonista sia in giardino che in cortile. Da sempre, silenziosamente, i due si fanno il tifo a vicenda. Manolo, appena l’occasione capita, presenta la sorella con ammirazione, affetto e sincerità. «Attaccante da subito Melania, fin dai primi calci», ricorda lui. La passione è vera, autentica, ed è proprio una questione di famiglia perchè il pallone ce l’hanno nel DNA ed era già scritto nel destino di entrambi.
Melania aveva il pallone tra i piedi dalla mattina alla sera. Un carisma innato di chi, oggi, è ricordata da tutti per le centinaia di gol messi a segno con il Verona e per la classe che ha sempre dimostrato sia in campo che fuori. Manolo non ha dubbi: «Credo che mia sorella, insieme a Panico, sia senza dubbio una delle migliori calciatrici italiane». In casa Gabbiadini il calcio si vive e si respira nell’aria, ma tra i fratelli del gol non c’è solo quello. La stima e l’affetto si percepiscono nonostante i chilometri di distanza (lei allena, appunto, le esordienti del Cittadella, lui militava allora nel Southampton in Premier League). Manolo racconta: «Per via dei nostri impegni sportivi è più facile sentirsi che vedersi. In ogni caso, una telefonata dopo le partite, mie o delle sue bambine, non manca mai». La naturalezza e il rispetto che entrambi hanno in modo reciproco sono gli elementi che saltano maggiormente all’occhio e colpiscono il cuore. Melania e Manolo, due campioni accomunati, oltre che dal sangue, dall’umiltà.
CALCIO FEMMINILE
«Vivo questo sport – dice Melania Gabbiadini – a livello di impegno, sacrificio, passione, divertimento, emozione, a parità dei colleghi maschi. Ma vivo tutto il resto con la speranza che un giorno il gap che c’è si riduca al minimo, perchè è vero che le differenze fisiologiche ci sono e non si possono cambiare, ma si può e si deve cambiare la mentalità che ci vede etichettate a praticare uno sport minore e per soli uomini»
Le carriere di Melania e Manolo sono parallele, ma allo stesso tempo lontanissime. Misurano tutta la distanza che c’è nel nostro Paese tra il calcio maschile e femminile. Entrambi sono diventati ottimi calciatori di serie A, ma il gap tra I due mondi è immenso: lui guadagna milioni di euro, lei prende giusto lo stipendio per vivere. La fatica, però, è la stessa: allenamento tutti i giorni sul campo e in palestra, partite nel fine settimana, e un giorno libero salvo impegni con i media o con gli sponsor. L’Italia è un Paese di “calciofili”, ma una parte di questo sport è quasi invisibile: il calcio femminile. Se confrontiamo la situazione italiana con il resto d’Europa scopriamo che la situazione non è affatto rosea. Innanzitutto nessuna donna nel nostro Paese è professionista: le atlete italiane che fanno dello sport il loro “lavoro” sono costrette a gareggiare da dilettanti, e questo non solo nel calcio. Nessuna Federazione italiana, infatti, permette loro di accedere all’attività professionistica.
Una discriminazione, questa, che si aggiunge alle questioni economiche: la maggior parte degli sport femminili, in Italia, ha meno pubblico e quindi meno mercato di quelli maschili. Una calciatrice non può percepire uno stipendio in quanto dilettante, ma solo un rimborso spese con il tetto massimo di 7.500 euro annui. Per questo motivo le calciatrici più quotate fuggono all’estero: in Germania, in Francia o negli Stati Uniti. Paesi dove di sport possono vivere anche le donne, in quanto i contratti comprendono contributi sanitari e pensionistici. In Italia, al contrario, le calciatrici, per vivere, devono fare un doppio lavoro. L’arretratezza in cui si trova il nostro Paese rispetto ad altre realtà è soprattutto di tipo culturale. Parte dalle stesse famiglie , dai genitori che non vedono di buon occhio l’avvicinamento delle figlie al calcio perché ritenuto “sport per soli maschi”.
Ma la colpa non è solo dei genitori, anche le istituzioni danno il loro contributo. Basta pensare a Felice Belloli, ex presidente della Lega Nazionale Dilettanti, quando, nel 2015, discutendo in un incontro federale di finanziamenti, uscì con la seguente frase: «Basta, non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche». Nonostante la strada sia ancora lunga, negli ultimi anni una piccola evoluzione c’è stata. Un esempio di tale progresso è stata la finale di Women’s Champions League giocata a Reggio Emilia il 26 maggio 2016, dove erano presenti oltre 20.000 spettatori. Ciò a dimostrazione che, con un maggior e serio impegno da parte degli organi federali e politici con lo scopo di promuovere, valorizzare e sviluppare il calcio femminile, anche in Italia si possono raggiungere ottimi traguardi.
Carlotta Baldo per www.pianeta-calcio.it