giovedì, 24 Ottobre 2024

Oggi

In questi caldi giorni di agosto ci hanno lasciato Bauli e Zavoli…

Il 4 Agosto 2020 si è spento a Roma all’età di 96 anni Sergio Zavoli, una delle figure più iconiche della cultura italiana del secondo dopo guerra. Il famoso maestro del giornalismo italiano era nato a Ravenna nel 1923 e in seguito vivrà a Rimini diventando cittadino onorario nel 1972. Nella città romagnola ha anche frequentato il Liceo Classico “Giulio Cesare” insieme a Federico Fellini, suo grande amico, vicino al quale ha chiesto di essere tumulato. Sergio Zavoli ha iniziato la sua carriera alla Rai nel 1947 come giornalista radiofonico, passando in seguito alla Tv nel 1968 divenendo la voce e il volto del telegiornale della Rai della quale divento in seguito Presidente dal 1980 al 1986. Una decina di anni fa il Cardinal Silvestrini fu intervistato dal nostro direttore di testata Andrea Nocini in coppia proprio con Sergio Zavoli e ne venne fuori una piacevole chiacchierata.

Qualche giorno dopo, l’11 agosto, si è spento a Verona Alberto Bauli. L’imprenditore veronese “Re del Pandoro” avrebbe compiuto 80 anni il 5 settembre prossimo. Era presidente dell’omonima azienda dolciaria veronese con sede a Castel d’Azzano conosciuta in tutto il mondo. Nel 2009 acquistò i marchi italiani Motta ed Alemagna – riportandoli così in Italia – e quello della svizzera Nestlè. E’ stato anche presidente della Banca Popolare di Verona. Diplomato in ragioneria, con una laurea in Economia e Commercio, Alberto Bauli, in una piacevole intervista rilasciata al nostro direttore di testata Andrea Nocini aveva dichiarato di non aver mai giocato a calcio e di non essere mai stato tagliato per lo sport, ma di essere un amante del calcio visto in tivù. In suo ricordo ve la riproponiamo.

Lei, presidente, non ha mai giocato a calcio, vero: nemmeno da ragazzino? “Io sono una delle poche persone che non ha mai giocato a calcio. E non ho mai giocato a calcio perché ho le gambe troppo lunghe, ero troppo magro, e, quindi, non riuscivo a correre. Ero una schiappa. Qualche rarissima volta ho giocato in porta con – devo dire – dei disastri totali. Non ho più giocato. Devo dire che l’altezza l’ho ereditata da mio padre, che, in più con il cappello di pasticcere, pareva diventare gigantesco”. Avrà provato, allora, a cimentarsi col basket?“No, però, abbiamo avuto una squadra – la Libertas Bauli, chiamata i “viola del basket” – che faceva basket a Verona, da metà degli anni Sessanta fino a quando non l’ha presa in mano Vicenzi, con Piotto – mi ricordo il nome –, squadra che noi abbiamo finanziato per 8 anni ed anche lì non sono mai andato a vederli”. Viola, ovvero, il secondo – dopo il verde iniziale e il lilla finale – dei tre colori scelti dalla vostra azienda…“Noi avevamo un venditore di carta oleata, che aveva un campionario, e c’era il blu e c’era il verde. Prima andò da Melegatti, che scelse il blu, e noi dovemmo scegliere il verde. Che non ci piaceva molto. Poi, quando cambiammo la confezione, scegliemmo di fare un colore che avesse la capacità di risaltare su un camioncino verde, ed era il viola, appunto. Il viola, però, scuro. Poi, l’abbiamo alleggerito, perché abbiamo visto che Alemagna era azzurrino e Motta era blu. E abbiamo fatto quello strano colore, che però oggi ci viene riconosciuto”.

Qual è il suo colore preferito?“Il blu”. Cosa le ispira il blu?“Il mare. Io ho una barca a vela, vado per mare e mi piace il blu. Il blu, poi, è un colore notoriamente rilassante”. Lei una volta ha detto: a Verona manca solo il mare…“Infatti, ed è una grande carenza della nostra città. Sarebbe la città più bella del mondo: se avesse il mare. Sarà la seconda, perché magari la prima può essere Napoli, ma, sicuramente è una bella città”. Tentativo di portiere in quei pochi calci dati al pallone…“Sì, perché ero alto, ero magro; sono negato per gli sport. Non ho un fisico adatto a fare sport”. Nemmeno la vela?“Ma, la vela non è uno sport. E’ la barca la parte sportiva; la vela è un’altra cosa. E’ un modo di vivere, un modo di pensare”. Portierino, o portieraccio…“Portieraccio”. Ripeto: portieraccio nel calcio, nella vita, invece, attaccante, centrocampista, difensore? “Mah, direi attaccante. Attaccante nel senso che nell’attività dell’imprenditore la prima necessità qualitativa che bisogna avere è voler fare, voler diventare, voler essere. Quindi, bisogna attaccare”.

Cos’è rimasto in li nella Nogara antica, quella che ha dato i natali nel 1896 al fondatore e papà Ruggero Bauli? “Nogara è un paese che lo conosco solo perché ci passavo davanti, in quanto mia mamma è nata vicino ad Ostiglia, a Serravalle Po. Ci passavo davanti, c’erano dei cugini di mio padre che allora gestivano un distributore di benzina della Esso. Non ero mai entrato in paese; ci sono entrato la prima volta quando hanno dato un premio a noi, perché appunto mio padre era nato a Nogara”. Lei crede di avere avuto la stessa fortuna di papà Ruggero? “No, mio padre non ha avuto fortuna: ha avuto capacità. E la capacità di mio padre la si è vista nei frangenti di grande pericolo e anche nell’intelligenza con la quale ha saputo cogliere un momento – il dopoguerra – nel quale un prodotto, il pandoro, poteva sostituire il panettone. E l’intelligenza è consistita nel fatto che ha saputo normare, cioè mettere una norma, in una produzione che, non sappiamo per esperienza diretta, non aveva delle regole. E siccome la produzione di questi prodotti era una produzione di trenta ore, bisogna avere dei tempi e delle regole quantitative nell’ingredientistica per potersi garantire una qualità costante. E, questa è stata la capacità di mio padre, che non di poco conto, perché poi molti l’hanno copiata”.

Noi col termine fortuna, presidente, alludevamo soprattutto al famoso salvataggio sulla nave “Principessa Mafalda” sulla rotta Genova-Buenos Aires, avvenuto il 25 ottobre 1927 al largo del Brasile, – e che provocò tra suicidi, persone mangiate dai pescecani e annegati 300 vittime -, quando suo padre Ruggero – figlio di un artigiano panificatore – stava raggiungendo, da emigrante in cerca di fortuna, quell’Argentina che lo ha visto fare prima per nove mesi il tassista e poi lavorare in una bottega che sfornava paste, arrivando allora fino a contare una quarantina di dipendenti. Ma, l’Italia e Verona li aveva nel cuore, e papà Ruggero decise di rientrare, riavviando nel 1937 l’azienda di pandori nella “città di Giulietta e Romeo”. La genialità, lei lo sa meglio di noi, si differenzia per aver coraggio, cercarsi e capire il momento giusto in cui soffia la brezza della fortuna.“Mio padre non lo potrei definire un uomo coraggioso, nel senso del coraggio di presentarsi in determinati frangenti in maniera anche molto audace. E’ sempre stata una persona molto razionale, che cercava ovviamente di non correre dei rischi. E, quando, però ha dovuto correrli è stato fortunato perché quella volta del naufragio gli si è infilata la gamba dentro la rete di una nave corsa in aiuto alla “Principessa Mafalda”, oppure perché quando è scoppiata la Prima Guerra Mondiale, anziché andare in prima linea, gli facevano fare semplicemente la spola per portare i rifornimenti. Però, tutto questo, insomma, non ha a che vedere con la Fortuna con la “F” maiuscola. Ha a che vedere con la natura di un uomo riflessivo, come era mio padre”.

Ecco, lei ha detto che il papà era riflessivo e razionale. Invece, Alberto, com’è? “Eh, non lo so. Io certamente ho una natura diversa da mio padre: ho una natura probabilmente di maggiore curiosità delle cose, ma anche di minore profondità”. In lei ha vinto più il cuore o la ragione? “Certamente la ragione. La razionalità credo che sia una delle caratteristiche che mi contraddistinguono. Nel senso che bisogna cogliere all’interno di un insieme di fattori che si vedono la linea razionale”. Che cos’è che le dà più fastidio e cosa invece riesce ancora a commuoverla? “Allora, guardi mi dà fastidio il pressapochismo, la bugia, la carenza di una visione qualitativa delle cose. E poi chiedeva?” Che cosa riesce ancora a commuoverla oggi? “Bé, mi commuove spesso e volentieri vedere delle persone che nella loro vita, nella loro attività, nei loro modi di essere ci mettono tutta la serietà e l’impegno possibile, magari sono sfortunati”. Ha un figlio che sta esponendo quadri a Milano? “Non è mio figlio e non so neanche chi sia”. Non ha figli impegnati nell’arte?“No, no, uno fa l’avvocato, uno lavora in un Istituto di Ricerca alla New York University e un’altra fa Filosofia. Però, se mi dice chi è questo Bauli, vediamo se magari è qualche parente. Siamo in pochi col cognome Bauli, e, quindi, potrebbe essere il figlio di qualche mio cugino”.

Il più bel complimento e l’aggettivo più cattivo che ha ricevuto come imprenditore? “Mah, guardi, complimenti non ne ricordo uno in particolare”. Quello di aver riportato in Italia i marchi italiani della Motta e dell’Alemagna? “Bé, va bé, ma quelli sono complimenti professionali che vanno all’azienda. C’è purtroppo la convinzione che l’azienda sia l’uomo, in realtà , l’azienda è un complesso di persone. Quindi, fanno un complimento, quando ti danno un premio, io ho sempre l’avvedutezza di spiegare che i premi vengono dati nella figura di una persona, ma devono essere sempre considerati a livello di tutti coloro che vi lavorano. Ricordiamoci che uno da solo non fa mica un’azienda da mille dipendenti”. Si parla di pianto di dolore, di lutto, di sofferenza, e di pianto di commozione. Quand’è che ha vissuto questi due particolari momenti? “Eh, bé, insomma, ho avuto dei lutti personali molto grandi, ma non mi pare giusto parlare di queste cose qua. Son cose riservate”. Quand’è che si è felicemente commosso: forse, alla nascita di un nipote?“No, guardi, sugli aspetti familiari io credo che una persona debba rimanere riservata. Non trovo giusto quando si vuole parlare di una persona che ha per motivo indotto – nel caso mio il cognome dell’azienda – si vuole parlare dei fatti personali, io lo trovo sbagliato, perché c’è la persona, chiamiamola così pubblica, e poi c’è la persona privata, che è un’altra cosa, insomma”. Lei crede in Dio? “Mi sforzo”.

Secondo noi, lei ci crede, anche perché quella sera che abbiamo voluto conoscerla, lei stava entrando in una chiesa… “E’ un discorso molto complicato, anche qui entriamo in argomenti estremamente difficili. Certamente che la ragione può andare in un senso, il sentimento può andare in un altro. Allora, bisogna vedere se si riesce a bilanciare le due cose”. Se uno un po’ ci crede, deve credere anche che esisti un Aldilà, che ci attende dopo questa vita terrena fatta più di lacrime che di gioie. Per dirla alla Ungaretti, “la vita si sconta”. Secondo lei, esiste l’Aldilà e come vorrebbe rivedere il papà e la mamma e i cari che ha perduto? “Guardi, anche qui sono domande alle quali non c’è una risposta”. Come piacerebbe che fosse l’Aldilà? “Eh, certamente avrei piacere di rivedere i genitori perché chiaramente ci sarebbe l’orgoglio di far vedere che si è riusciti a fare quello che ci hanno insegnato, perché magari nei confronti della mamma magari si vuole cercare di farle vedere quanta saggezza lei avesse, e nei confronti del papà perché lì si vuol far vedere quanto ci ha insegnato e abbiamo portato a termine. E’ un momento, per così dire, di esame, che va unito però a degli aspetti di sentimento, che ovviamente legano tutte le persone ai propri genitori”.

Ha mai avuto paura, presidente? “No, la paura è un sentimento che anch’io provo. Anzi, le dirò di più: la paura è un sentimento, per lo meno in me, spesso costante in molti aspetti. C’è da aver paura quando si va per mare e c’è brutto tempo. C’è d’aver paura quando c’è da prendere una decisione nella direzione giusta, c’è da aver paura quando, che so io, ti ferma per strada un carabiniere e non sai che cosa vuole, c’è d’aver paura quando ti arriva un avviso e non sai a che cosa si riferisce; o quando ti chiamano, che so io, in Giudizio per una cosa o per l’altra. O un cliente protesta perché dice…; cioè, la paura è una costante di tutte le vite, c’è paura quando si va dal medico, c’è paura di tutto”. Le è costato di più il sentimento di un amore o quello di una grande amicizia? “Mah, forse, un sentimento di amicizia nell’uomo è molto più perdurante, e, quindi, come tale presenta nell’animo maschile una serie di difficoltà che l’animo femminile riesce invece a superare molto meglio. Le donne sono meno portate all’amicizia, ma sono più portate a quelli che sono gli aspetti di breve. Noi siamo più per gli aspetti lunghi. Io ho degli amici d’infanzia, con i quali, pur non vedendomi, o vedendomi raramente, mantengo lo stesso affinamento, lo stesso sentimento di quando avevo 6-7 anni”. E’ vero che i dolori sono uguali, mentre le felicità sono diverse (Fedor Dostoevskij)? “Il dolore è molto potente, i dolori sono cose che segnano la vita a volte in misura indelebile. Però, ci sono diversità nel reagire al dolore: c’è gente che reagisce in maniera abbattendosi, chi reagendo, chi assopendosi, chi cercando di trovare alternative. Le reazioni dell’uomo sono infinite, quindi, bisogna vedere caso per caso, persona per persona, momento per momento a cosa uno reagisce. Faccio per dire: in certi frangenti, il dolore viene sublimato da un impegno maggiore, che ti fa accantonare nel cervello quella a parte dolorosa che ti accompagnerebbe in tutti i minuti. Non si può, non è possibile generalizzare”.

Lei, presidente, come ha reagito di fronte al dolore? “Io ho cercato sempre di trovare dei momenti di rasserenamento. Io amo la bellezza e la trovo una cosa che aiuta in tutti gli aspetti. Naturalmente, ci sono momenti in cui la bellezza può essere accolta con gioia piena, e ci sono dei momenti, se sotto dolore, in cui la bellezza aiuta più o meno – bisogna vedere – ma, certamente, ci sono delle cose nelle quali ci si può aggrappare ragionevolmente. Il lavoro può essere una specie di droga, la bellezza è una cosa più seria”. E’ bellissima anche una tragedia, come viene raffigurata ne “ La Deposizione” dell’Andrea Mantegna… “E’ bellissimo anche un albero, è bellissimo anche un fiore, è bellissimo anche un paesaggio. La bellezza ha una grande varietà. A me colpisce sempre quando gli stilisti dicono la gente, in certi frangenti, ha bisogno di sentirsi bene e vuole vestirsi bene perché in quel momento si sente bene. E’ una ricerca di bellezza in modo un po’ particolare”. Di che cosa noi non dobbiamo mai dimenticarci nella vita? “Che siamo in libertà temporanea. Che prima o poi finisce”. I suoi santi preferiti: san Francesco, sant’Agostino, sant’Antonio, Madre Teresa di Calcutta? “Bé, forse, Madre Teresa di Calcutta può essere un esempio. Ci sono altri esempi importanti. A me, ad esempio, piacciono molto i fondatori di molti ordini religiosi, perché hanno quella quota parte di intraprendenza – cito don Calabria, per fare l’esempio più comune da noi a Verona -, che sono riusciti a fare opere grandiose. Tra l’altro, io sono nato nella casa dove è nato don Calabria, e, quindi, è anche un fatto di nascita. L’azienda Bauli è nata vicino dove è nato don Calabria e lì è nato all’ultimo piano don Calabria. E, nella stessa stessa stanzetta ci abitava una mia zia”. E’ superstizioso il dottor Alberto Bauli? “La superstizione…” E’ una debolezza? “Hum, non la capisco, non so che senso abbia”.

Il suo miglior pregio e il peggior difetto? “La tenacia e una certa relativa capacità di approfondire perché poi mi annoio. Preferisco avere una visione larga che una visione profonda”. Era, quindi, curioso di conoscere questo giornalista che l’ha fermato quella sera per strada? E il presidente dell’azienda dolciaria si lascia andare a un bel sorriso: “Certo, certo. Lei è una persona intraprendente – sì, adesso che mi fa pensare, ricordo di averglielo detto –. Certamente, perché uno che si dà da fare, che mi ferma per strada, che non mi conosce, che mi fa vedere i libri e che me li manda, non mi capita mica tutti i giorni, insomma”. Lei è un uomo libero, dottor Bauli? “No, non lo sono ed è la libertà la cosa più importante. Ne ho parlato molti anni fa con il professor Zanotto – il fondatore della banca popolare di Verona – e mi ricordo che a fine anni Cinquanta, primi anni Sessanta, i primi anni in cui andavo a lavorare, ai Magazzini Generali c’era un’enorme scritta sul muro che diceva – sono passati 50 anni e me la ricordo ancora -: ”Non lusso, non agi, ma libertà, libertà, libertà!”. E come si fa a diventare liberi? E’ un’utopia o un traguardo che si può conquistare? “Si può raggiungere, abbiamo due esempi: uno laico e, se vuole, uno non laico. Gandhi la libertà l’ha raggiunta rinunciando a tutto, ma ricordo che Le Corbusier, il grande architetto francese, viveva in una stanza monacale. Cioè, togliendo il superfluo, si è liberi. Noi viviamo in un mondo dove il superfluo invece ci sta ammazzando”.

Anche lei potrà dire un giorno “Vissi d’arte e d’amore”? “Bé, insomma, siamo tutti circondati dall’arte e dagli affetti, non c’è ombra di dubbio. Non è che io viva di questo: ho anche altri interessi, ho altre responsabilità, ho altri impegni, ma diciamo che cerco di vivere compatibilmente con i miei impegni, cercando – come fanno nei ristoranti – di assaggiare tutti quanti i piatti”. C’è in lei una spiccata curiosità buona. “Ma, guardi, senza la curiosità non si va da nessuna parte. Ma, anche lei è curioso”. I grandi greci tragici dicevano: “soffrire è uguale conoscere”… “E’ vero, è sempre una sofferenza conoscere, perché se lei vuole sapere deve mettersi a tavolino, prendere un libro, studiarselo ed è faticoso. Ti fa soffrire, però, dopo hai il piacere – io vengo adesso da una riunione che è stata faticosa, è stata di sacrificio, ma che poi mi ha gratificato perché ho raggiunto quel livello di conoscenza di una certa cosa che desideravo -”. Immaginiamo che lei avrà frequentato il Liceo Classico o lo Scientifico… “No, no, io ho fatto Ragioneria. Eppoi, ho fatto Economia e Commercio”.

Le piacciono i filosofi, Hegel, Kant, le piace la musica classica? Come si rilassa il presidente a capo di una grande azienda italiana? Va in barca a vela?“No, a vela ci vado poco poi. Allora, intanto, il rilassarsi dipende sempre dal cercare argomenti che ti piacciono e che ti interessano, e che ti danno serenità. Lei mi ha visto davanti a una chiesa: sa perché ero lì? Lei sa che quella chiesa lì ha dei buchi, dei fori che sono stati fatti alla fine del Settecento dai francesi; allora, volevo leggere la lapide – perché l’hanno restaurata –; ecco, allora, diciamo che la conoscenza di dove veniamo, di chi siamo e dove andiamo è una delle cose che mi rasserenano, perché mi fan capire molti aspetti. Quindi, una delle cose che io amo maggiormente è proprio andare in giro a guardarle, a capire, a studiare, non a studiare in maniera libresca, ma a dedurre da alcuni aspetti, perché bisogna avere – ripeto – una curiosità e bisogna avere anche il piacere di andare ad osservare queste cose. A me piace”. Il suo “autogol” più clamoroso, ovvero il rimpianto, il rammarico più grande? “Ne ho tantissimi, ma forse uno dei rimpianti che in questi giorni qui ho maggiormente è di non aver mai giocato a calcio, perché per televisione mi piace da morire”.

Qual è un giocatore che le piace in Italia o nel mondo? “Bé, io non sono un esperto: ieri sera vedevo Messi, che ha dei guizzi incredibili, però, devo dire che negli ultimi tempi il giocatore che più mi è piaciuto da un punto di vista totale è Kakà”. Lei ha detto che le piace il blu; se accanto gli mettessimo un giallo… “Dunque, io sono tifoso del Verona, senza mai andare allo stadio, se non una volta, due volte. Andai allo stadio a vedere – mi ci portò un amico – una partita della Juventus e una partita del Milan. E ricordo nella partita del Milan un Rivera – quindi, parliamo di molti anni fa – che da una parte dell’altra del campo, da una porta all’altra, lanciò in maniera millimetrica una palla sul piede del suo collega. Rimasi impressionato da questo lancio, da questa capacità. Devo dire che il Verona lo seguo come risultati”. Quindi, più Hellas che Chievo? “No, direi solo Hellas; Chievo non posso…” Professa, seppur celate, simpatie milaniste, dottore? “Io ho simpatie milaniste, ma per una ragione banale, non perché lei mi ha sentito ricordare quel gesto balistico di Rivera. In genere, si diventa tifosi da bambini e poi non si abbandona più la maglia, giusto? Allora, io quando ero ragazzino c’era un giocatore del Milan che si chiamava Schiaffino”.

Sì, uruguagio e soprannominato “Pepe”… “Si chiamava Alberto, Juan, detto “Pepe”. Chiamandosi Alberto, io da ragazzino è chiaro che mi sono identificato un po’ in questo giocatore, e da allora, chissà perché il Milan mi è sempre rimasto un po’ nel cuore, perché l’imprinting si ha a 12-13 anni, non dopo. Oggi, però, devo dire che al di là delle qualità del Milan che in questo momento mi sembra molto appannato dal punto di vista della rosa dei giocatori e anche della volontà credo di costruire una squadra da scudetto – cosa che invece la Juve mi pare che abbia – nel Verona la sfiga è stata gigantesca. E’ una squadra che ha dietro una città intera che ama questa squadra; rispettiamo tutti il Chievo, ma si ama il Verona, e, quindi, il fatto che il Verona non sia riuscito ad andare in serie B è un dolore perché meritiamo una categoria del genere. Il signor Martinelli, che è una gran brava persona, ci ha messo l’anima, ci ha messo anche i soldi e la sfiga è stata grande”. Qual è stato il libro più bello che ha letto? “Ma, io di libri ne ho letti anche abbastanza; diciamo che in questo momento mi ricordo un libro scritto da Hermann Hesse, “Il gioco delle perle di vetro”, perché è un libro che cerca di dare un senso alla vita dell’uomo. “Il gioco delle perle di vetro” è un libro dove c’è una cosa molto importante, che mi ha fatto riflettere, perché in questo gioco si parla dell’importanza della musica, cioè della musica come elemento caratterizzante dell’uomo a dispetto di altri animali: gli uccellini cantano, ma, è una cosa diversa. Nella musica è un’espressione dell’intelletto, che non soltanto è altissima – basta ascoltare a volte certe composizioni -, ma, che ha anche un grande potere di bellezza. E, quindi, compendia in sé degli aspetti più fruibili rispetto ad altre cose belle della qualità dell’intelletto umano”.

Diceva il noto scrittore e filosofo tedesco, Nice, che “la vita senza la musica è un errore…”“Sono perfettamente d’accordo”. Ama qualche scrittore, qualche grande poeta del nostro Novecento, tipo Pascoli, Carducci, Foscolo? “A me piace Guido Gozzano: lo trovo un poeta musicale, con un lessico anche piuttosto complicato a volte, “la luce che si immilla nel quarzo” è una frase che mi è rimasta impressa, e, quindi, un poeta bistrattato perché decadente, diciamolo pure, ma che ha una musicalità devo dire abbastanza rara. Poi, ci sono naturalmente altri poeti importanti. I poeti non sono soltanto quelli che leggiamo a scuola: è poetico leggere in italiano – perché in inglese non riesco a farlo – i testi dei Beatles, per non parlare di Mogol. A parte le musiche, sono belle le parole”. Papà Ruggero su cosa insisteva in maniera particolare sul carattere di Alberto? “Mio padre diceva: voi dovete farvi una strada, avete la possibilità di farvi le fabbriche di qui, di là, di su, di giù, perché lui essendo stato emigrante aveva colto la differenza tra l’Italia e un Paese come l’Argentina, dove io sono poi stato. L’Italia, cioè, è un Paese che ha la testa voltata all’indietro, verso il proprio passato, e si bea delle sue città antiche, della sua arte, del suo Rinascimento, della sua scienza, dei suoi splendori. Gli americani invece guardano sempre al futuro. Ecco, noi in questo tipo di atteggiamento commettiamo un errore madornale, insomma, perché la fiducia nel futuro, per averla, bisogna crederci, e noi siamo un Paese che crede al passato”.

Il suo motto?“Non ce l’ho, non ho nessun motto”.
Che so, è importante essere curiosi, intraprendenti…?
“Ah, va bé, no, allora essere curiosi, allora. La curiosità è il mio motto”.
Grazie, dottor Alberto Bauli, di averci onorato di questa bella chiacchierata.
“Nessun onore, spero che le piaccia, anche se credo di essere una persona riservata”.

Andrea Nocini per www.pianeta-calcio.it (24 giugno 2010)

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